Oltre
alla sua intensa attività di giornalista, di critico in ambito
letterario, organizzatore di eventi culturali nella provincia d’Imperia,
e tantissimo impegno a favore della cultura e della sua divulgazione,
il prof. Francesco Mulé ha dedicato un’intera esistenza alla passione
per la poesia e la scrittura. All’attivo ci sono diverse pubblicazioni,
per quel che riguarda i componimenti in versi: ‘Il mio poeta,
‘Fotogrammi’, ‘Scogliera’, sono tre sillogi che hanno incontrato il
favore dei lettori e della critica. La poesia è sempre stata una
passione travolgente per il prof. Mulé, punto fermo del suo orizzonte
culturale; ma ogni tanto ha rivolto l’attenzione al richiamo della
prosa, la sua inclinazione al narrare è evidente, naturale, direi una
necessità interiore.
L’impulso
del raccontare è certamente un istinto che viene dai recessi più
profondi dell’animo di chi scrive, un veicolo attraverso il quale si
portano in superficie scenari e realtà che l’inconscio magari cela nei
suoi misteriosi meandri, non di rado ombre di vissuto, esperienze
compresse che emergono assumendo talvolta altre sembianze, lontane
similitudini con ciò che si è sperimentato. Per questo i romanzi,
nonostante le apparenti distanze con la vita dell’autore, hanno sempre
un intreccio nel loro ordito che conduce alla sua sfera intima; anche se
la caratterizzazione dei personaggi, gli scenari e il contesto in cui
si svolgono gli avvenimenti descritti, sembrano solo affidati
all’estro, all’abilità e ai virtuosismi del narratore.
Ci
sono tuttavia esperienze che l’autore decide di raccontare in modo
diretto, personale, senza filtri nella narrazione, ossia è egli stesso
l’io narrante, e orienta la sua opera nel versante della memoria, dietro
le quinte limpide degli anni vissuti in delicate o aspre atmosfere di
quotidiano, tra amarezze ed esultanze, vicissitudini liete o arrese di
fronte alle asperità della vita.
E’
questo il percorso più autentico di ogni artista, e tuttavia raccontare
se stessi è forse più arduo che tracciare profili altrui, essere fedeli
alla verità della propria memoria, in qualche modo significa togliere,
indumento dopo indumento, le zavorre dell’anima, e arrivare alla soglia
dell’esperienza, così come si è vissuta, riesumando atmosfere ed
emozioni, positive o negative che siano state.
Raccontare
di se stessi significa anche abbandonare le proprie renitenze,
lasciando in un angolo gli eccessi di riservatezza in favore della
schiettezza e genuinità dell’evento, che per diverse ragioni è rimasto
impresso. E’ in definitiva il coraggio di chi sa inoltrarsi nei fondali
più inediti del proprio sé, abbandonando sovrastrutture morali e veti
senza senso, per riprendere il dialogo con il passato, e ritrovarsi
magari sorprendentemente a indossare quegli stessi abiti che la vita
aveva confezionato in strette o abbondanti misure. Sono infatti rari i
momenti in cui la vita ci permette di portare abiti della ‘giusta
misura’, che non urtino con le nostre aspettative..
Il
profondo sud dei propri anni non è comunque, come si crede, un tratto
di esistenza quasi blindato dalla memoria, si possono ritrovare stralci
di vissuto ancora intatti, come fossero stati riposti con cautela da
mano prudente, tenendo lontane le insidie del tempo che tutto tende a
corrompere e a travolgere. Ricordare e raccontare è un’arte non
propriamente scontata, soprattutto quando si deve compiere percorsi a
ritroso con abilità e perizia lungo i margini di un flusso di ricordi
che vengono incontro con inaudita lucidità, talvolta con qualche
penombra, e tuttavia ben riconoscibili dalla coscienza.
La
capacità d’introdursi in queste vie raramente poco illuminate, secondo
Socrate, è simile all’abilità del palombaro, che sa cogliere in
profondità risorse non accessibili a tutti (questo egli disse degli
scritti di Eraclito).
Il
prof. Mulé si è cimentato nella stesura di una serie di racconti, uno
dei quali è intitolato “Diario di un emigrante”, rimando allegorico alla
sua lontananza da Cattolica Eraclea, cittadina della Sicilia della
quale è originario, e dalla quale si è a suo tempo dovuto allontanare
per ragioni professionali.
Da
tanti anni ormai risiede a Vallecrosia, località in provincia di
Imperia, e qui si svolge la sua vita, tra impegno e fervore culturale,
giornalismo e letteratura.
L’intera
serie di racconti dedicati all’infanzia e prima giovinezza trascorse in
Sicilia, avrebbe potuto intitolarsi ‘Diario di un emigrante’, tanto il
titolo è appropriato e speculare di un periodo di formazione personale,
sia per quel che riguarda l’istruzione, nei vari gradi compiuti fino
al conseguimento della laurea in Pedagogia, sia in altri aspetti, da
quello affettivo agli interessi, coltivati in un’epoca, quella degli
anni cinquanta, avara d’iniziative, e soprattutto caratterizzata
dall’indigenza. Arrivare a completare il ciclo di studi, fino a portare a
termine l’Università, non era semplice e non era neppure prerogativa di
tutti, in ogni caso era una strada lastricata di problemi, i quali come
massi ostruivano il transito, e ne rendevano disagevole il corso.
Di
questo ci parla Francesco Mulé nei suoi racconti, della Sicilia degli
anni cinquanta, quando l’Italia si stava riprendendo dopo la terribile
prova del secondo conflitto mondiale, che aveva interessato e coinvolto
tutte le regioni del nostro paese. Un faticoso procedere, certamente
caratterizzato da un grande impulso e desiderio di rinascita, dopo tanta
distruzione. Nelle regioni meridionali, peraltro, i disagi di tipo
economico e sociale erano senza dubbio più rilevanti che in quelle del
Nord, più dotate di risorse e di mezzi per superare le emergenze del
dopo-guerra.
I
racconti narrano di un’infanzia nella quale era necessario inventare il
quotidiano, tenere lontana la solitudine attraverso la creatività che
veniva da semplici rituali di vita, alchimie varie e giochi all’aperto
che in definitiva erano molto più interattivi dei giochi elettronici di
oggi, e dei social network, i quali, a dispetto del nome e dei fini che
si prefiggono, contribuiscono a ridurre i contatti diretti tra le
giovani generazioni. Nei racconti è palpabile il desiderio di saltare lo
steccato dell’indigenza, per questo si è quasi portati a odiare
segretamente i luoghi nei quali si vive, una natura ostile che offre
l’indispensabile alla sopravvivenza, e rare sono le occasioni per
sentirsi davvero cittadini del mondo.
Qui
fermentava il desiderio di lasciare la terra che si riteneva ingrata,
complice di un destino taccagno, evasore, che non rispondeva alle
chiamate e lasciava alla mercé degli eventi, talora infausti, dato che
il tasso di mortalità era senza dubbio alto.
Si
parla di madri relegate tra le pareti domestiche, dedite alle
incombenze di ogni giorno, soprattutto alla crescita e alla formazione
dei numerosi figli, si accenna ad una società nella quale le
prevaricazioni erano riti dell’ordinario, perché non abbastanza
tutelati, di padri immersi nel lavoro e nella precarietà delle proprie
occupazioni.
Si
leggono episodi di vita scolastica, che oggi hanno ritmi diversi e
altri svolgimenti, non solo sul piano didattico, ma anche umano e
sociale; di ragazzini comunque vivaci, già responsabili verso i propri
studi, e timorosi di dovere rispondere ai propri genitori di eventuali
provvedimenti disciplinari. Si vive, insomma, un clima d’altri tempi,
che richiama in qualche modo i film neoclassici girati proprio nel dopo
guerra, con tematiche forti e realistiche, un riflesso schietto e
autentico dell’Italia di 60 anni or sono, il cui profilo non poteva che
essere tracciato con quelle immagini, descritto con quelle parole.
Per
questo i racconti del prof. Mulé meriterebbero di essere raccolti e
pubblicati, in tanti si ritroverebbero dietro quei muretti a secco,
mentre i ragazzi si nascondevano per evitare nei loro giochi di essere
trovati dai compagni, oppure con un cerchio di bicicletta arrugginito
nelle vie libere dei piccoli centri urbani, a tirare calci ad una palla
improbabile, realizzata con cartaccia e brandelli di stoffe rimediate
nelle proprie case.. E’ un’atmosfera ludica di tempi che sembrano
lontanissimi, scaduti, di luoghi nei quali si respirava a fatica, e
‘stavano stretti,’ proprio come quegli indumenti che la vita ti cuce
addosso, e per questo si pensava di evadere; si costruivano strade,
tracciati nei propri pensieri orientati a questo fine, aspettando la
conclusione degli studi, per obliterare finalmente il biglietto della
fuga.. Salvo poi, 50 anni più tardi, ritrovarsi a fare bilanci, e a
ripensare con struggente nostalgia, a queste piccole cittadine che nel
corso dell’infanzia e della giovinezza, erano state il mondo intero..
Virginia Murru
Virginia Murru
Nessun commento:
Posta un commento