sabato 25 aprile 2020

Nella giornata mondiale del libro e del diritto d'autore la SIAE compie 138 anni - Francesco Mulè

Nella giornata mondiale del libro e del diritto d'autore la SIAE compie 138 anni 


Mogol: “l’emergenza sanitaria è un’occasione per riflettere sull’importanza di tutelare la creatività. Il 23 aprile è un giorno speciale per la Società Italiana degli Autori ed Editori, che nasceva proprio in quella data nel 1882. Questa importante ricorrenza coincide anche con la Giornata Mondiale del Libro e del Diritto d’Autore da quando l’Unesco ha deciso di celebrare proprio il 23 aprile il ruolo del libro come potente strumento di diffusione e di conservazione della cultura e di sottolineare l’importanza della protezione della proprietà intellettuale attraverso il copyright, nonché il contributo che gli autori danno al progresso sociale e culturale dell’umanità. Nel nostro Paese, dunque, il 23 aprile assume un’importanza fondamentale per la tutela del diritto d’autore proprio perché, 138 anni fa, veniva fondata a Milano la Società Italiana degli Autori, che successivamente sarebbe diventata l’attuale SIAE. Ai blocchi di partenza c’era un nucleo molto qualificato di 181 intellettuali, fra i quali ben tre ministri e un bel numero fra senatori e deputati, grazie ai quali la Società assunse immediatamente prestigio e rilievo nel mondo degli addetti ai lavori”. 
“Attualmente la Società Italiana degli Autori ed Editori è al sesto posto della classifica mondiale delle società di collecting, come confermato dai dati del Global Collections Report pubblicato da CISAC (Confédération Internationale des Sociétés d'Auteurs et Compositeurs), risultato che testimonia il ruolo di prim’ordine della Società all’interno del network internazionale. Oggi, come non mai, è cruciale il ruolo della SIAE in un momento come quello che stiamo vivendo a causa della pandemia da coronavirus, in cui tutti dobbiamo restare in casa per salvaguardare noi stessi e la collettività, le opere dell’ingegno, come musica, libri e film, ci danno conforto. Che vita sarebbe senza questo immenso patrimonio culturale? - ha commentato il Presidente SIAE Giulio Rapetti Mogol – Dunque questa emergenza è anche un’occasione per tornare a riflettere sull’importanza di tutelare e diffondere la creatività per la crescita personale, culturale e civile”. 
“Eppure, il rischio è di assistere all’incredibile ingiustizia per cui i giganti del web continuano a guadagnare cifre miliardarie sulle spalle dei creativi, che in questa difficile circostanza sono duramente colpiti a causa dell’emergenza sanitaria. Rinnovo perciò il mio appello al Parlamento italiano affinché anche nel nostro Paese venga recepita al più presto la Direttiva Copyright. È una questione di coscienza e di giustizia e va affrontata al più presto – ha aggiunto Mogol - Senza diritto d’autore, che è il diritto del lavoro quotidiano di chi crea, la cultura muore, e con lei muore anche la nostra identità”. 
“L’evoluzione della situazione ha reso necessaria l’adozione di misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza sanitaria che ha avuto pesanti ricadute su tutto il settore dello spettacolo. La nostra priorità anche durante questo particolare periodo è dunque stare vicino a tutti i nostri associati, garantendo la continuità operativa ma anche fornendo un sostegno concreto – ha concluso Mogol – Non tradiremo mai i nostri valori e ci batteremo sempre per la difesa del diritto d’autore”. 
(Francesco Mulè)


Emergenza Covid - Francesco Mulè

Vallecrosia. In questo momento di grande difficoltà, UNEBA Imperia si associa ai ringraziamenti al personale operante nelle strutture che, oltre a quanto richiesto dal contratto di lavoro, oltre a quanto indicato per le mansioni assegnate e oltre a quanto suuggerito dall’inesauribile senso del dovere, stanno continuando ad operare con dedizione e sacrificio per il benessere di tutti gli Ospiti delle strutture residenziali.
Di seguito si riporta la lettera aperta unitaria delle 13 Associazioni a cui fanno capo le strutture sociosanitarie extraospedaliere della Liguria.
“Questa lettera aperta vuole essere un contributo per comprendere cosa sta accadendo nelle RSA narrando ciò che è accaduto in questi ultimi due mesi nei nostri servizi socio sanitari residenziali.
Volutamente usiamo una definizione un po’ tecnica, servizi socio sanitari residenziali, perché vogliamo parlare non solo di RSA per anziani ma più ampiamente di tutte quelle strutture che accolgono persone in condizione di vulnerabilità quali i centri di riabilitazione per disabili, le comunità terapeutiche per soggetti psichiatrici, per le dipendenze, per i minori.
Strutture diffuse su tutto il territorio regionale, pensate per offrire cure e assistenza prevalentemente “di lungo termine”, il cui funzionamento è disciplinato dalla normativa regionale sia per quanto riguarda i parametri di personale (quali figure e per quanto tempo devono operare) sia per i requisiti strutturali (mq stanze, idoneità locali) sia per le prassi cliniche e gestionali; il rispetto delle norme da parte di chi gestisce le strutture viene ordinariamente verificato dal personale di Alisa, delle ASL, dei Servizi Sociali dei Comuni, dei NAS, dell’Ispettorato del Lavoro. La quasi totalità delle Strutture opera in regime di accreditamento con il Sistema Sanitario Regionale rispettando ulteriori parametri di qualità fissati da Regione Liguria, contrattualizzando con le ASL il volume delle prestazioni erogabili a fronte di rette giornaliere definite sempre a livello regionale, riconosciute a fronte dei servizi erogati ai cittadini che spesso co-partecipano alla spesa oppure se ne fanno carico totalmente laddove non vi siano sufficienti coperture di risorse pubbliche.
Su questo sistema disciplinato, organizzato e verificato, che accoglie più di 20.000 persone e impiega più di 15.000 dipendenti, ha impattato imprevedibilmente, violentemente e subdolamente l’emergenza Coronavirus. A partire dalla fine di febbraio è stato un continuo lottare alla ricerca di soluzioni per impedire il contatto del virus con i nostri ospiti che abbiamo continuato ad accudire consci della responsabilità che ci stavamo assumendo.
Il 22 febbraio, quando qualche esperto qualificato parlava di un qualcosa di simile ad un’influenza, noi ricevevamo le prime indicazioni dal Ministero della Salute, il 23 di febbraio la prima ordinanza di Regione Liguria per limitare gli accessi, il 24 febbraio prima riunione in Alisa, per noi era già emergenza, forse per il resto dei cittadini liguri non ancora. Alcuni di noi avevano già chiusi gli accessi ai visitatori, con fermezza. Siamo stati contestati per questo, ci hanno detto che volevamo nascondere qualcosa, il tempo ha detto che siamo stati previdenti. Nessuno poteva avere piena consapevolezza di quello che sarebbe accaduto e soprattutto nessuno in allora era attrezzato, a partire da chi è preposto istituzionalmente a fronteggiare le emergenze (la Protezione Civile Nazionale che tante volte ha dimostrato la sua prontezza di fronte alle calamità naturali a sua volta si è trovata completamente spiazzata di fronte a questo tipo di emergenza). Il 4 marzo riceviamo il DPCM che conferma la sospensione delle visite lasciando alle nostre Direzioni Sanitarie la possibilità di eventuali deroghe e attribuendogli il compito di adottare le misure necessarie a prevenire possibili trasmissioni di infezioni. 
Noi stavamo già piangendo i nostri defunti. E siamo andati avanti tenendo la barra dritta, giorno dopo giorno, quando le priorità (e i riflettori) erano puntati sui reparti di urgenza ospedaliera, i pronto soccorso erano intasati e ci veniva richiesto di non inviare pazienti. Marzo è stato il periodo peggiore perché in questa situazione emergenziale, in continua trasformazione, raggiunti da decine di mail, documenti e disposizioni non disponevamo però di quello che era ed è indispensabile: i dispositivi di protezione individuale ed il giusto numero di personale.
Da subito i DPI hanno scarseggiato, l’azione iniziale decisa a livello nazionale è stata di accentrarne l’acquisizione tramite Protezione Civile per poi distribuirli, innanzitutto negli Ospedali, poi gli altri; noi eravamo tra gli altri, e quindi a noi sono arrivati tardi.
E’ superfluo dire che ci siamo iperattivati da subito anche per acquistarne privatamente, costituendo gruppi di acquisto per importare anche noi direttamente dalla Cina, ma, come è noto, almeno per un certo periodo gli ordini fatti da privati sono stati sequestrati ed i produttori e fornitori hanno dato priorità ai servizi ospedalieri ed alle ASL.
La prima consegna di DPI fornitaci da Regione Liguria è del 20 marzo, distribuiti solo alle strutture per anziani che avevano già situazioni complesse, perché i pezzi non bastavano per tutti, perché non ce n’erano, perché anche gli Ospedali erano in affanno nonostante fossero la priorità.
Da allora la situazione è cambiata, i quantitativi ricevuti sono cresciuti, la settimana prossima la distribuzione raggiungerà tutti i servizi, nessuno escluso; vogliamo evidenziare che la distribuzione dei DPI per i nostri Enti forniti da Regione Liguria e Protezione civile è a cura di nostri operatori volontari, prelevando il materiale dal magazzino centrale del San Martino e smistandoli secondo criteri stabiliti da Alisa in 5 punti di consegna (uno per asl) dove possono essere ritirati.
Nonostante la scarsità di DPI si è continuato ad operare, ottimizzandone l’impiego e cercando sostenere chi era più in crisi, condividendo freneticamenti tra noi i riferimenti di dove si potevano reperire, a volte purtroppo anticipando pagamenti di ordini che non sono mai arrivati. Per quanto riguarda il personale purtroppo alcuni operatori hanno iniziato ad ammalarsi, sia nei nostri servizi che in quelli ospedalieri, e non era facile sostituirli. Non è così noto ma ordinariamente è già difficile in Liguria reperire Infermieri e Operatori Socio Sanitari, si può facilmente comprendere come questa criticità si sia acuita in tempo di emergenza virus. Ancora una volta abbiamo sottostato alla logica della priorità: le nostre piante organiche, già ridotte, si sono ulteriormente indebolite, le ASL e le Aziende Ospedaliere per sopperire alle loro carenze (dovute alla nostra stessa causa) hanno contattato e assunto con effetto immediato personale che era in servizio presso le nostre Organizzazioni, mettendoci ancora più in difficoltà.
Anche questa volta, così come nel caso dei DPI, non si pensi che ci siamo rassegnati, abbiamo continuato a segnalare la drammaticità di queste carenze, richiedendo un canale diretto per i tamponi e la disponibilità della consulenza di un virologo, giorno dopo giorno, costantemente, perché va detto, costante è stato il rapporto con Regione Liguria ed Alisa. Lo abbiamo fatto civilmente senza alimentare polemiche perché sappiamo per esperienza diretta quanto sia difficile assumere decisioni e responsabilità nel definire le priorità in momenti di emergenza.
Oggi il quadro è migliorato ma attenzione, per noi è sempre emergenza, è sempre fase 1, anche se lo scenario si è capovolto e l’attenzione è più rivolta ai nostri servizi, stanno giungendo in struttura e ne siamo grati i primi sostegni di infermieri e medici inviati da Regione Liguria e Protezione Civile. C’è infine un tema su cui davvero vorremmo richiamare l’attenzione di tutti: ad affrontare queste difficoltà immense ed impreviste c’era e c’è il nostro straordinario personale, del cui valore troppo poco si parla. In questi due mesi di caos loro sono stati il vero punto di riferimento per le persone accolte, spesso persone non autosufficienti, spesso uomini e donne non in grado comprendere il perché di tante misure di sicurezza, i motivi di tanto sconvolgimento.
E tanto più non si comprende, tanto più si diviene poco collaborativi, aumenta il bisogno di essere ancor di più accuditi, ascoltati, rassicurati e questo hanno saputo fare in questi due lunghi mesi i nostri operatori, con tutta la professionalità di cui sono capaci e con la loro straordinaria umanità, in tutti i ruoli ed in tutte le funzioni, medici, infermieri, educatori, operatori socio sanitari, cuochi, personale dei servizi ausiliari, manutentori. Quindicimila persone hanno continuato a fare non solo il loro dovere ma di più, hanno tutto quello di cui c’era bisogno.
I nostri servizi non sono state pensati e attrezzati per contenere epidemie, non sono nati per isolare, per dividere; in un tempo ordinario si lavora per dare vicinanza, per fare stare insieme le persone, perché “qualità di vita” significa anche vincere l’isolamento e la solitudine di chi è più fragile.
I nostri operatori si “chiamano per nome” e così gli ospiti, nelle nostre strutture si cerca di ricreare un senso di famiglia, di riprodurre per quanto possibile il calore di una casa che con dolore i nostri assistiti hanno dovuto lasciare. I nostri operatori sono consapevoli di portare sulle spalle enormi responsabilità, sanno che possono essere i vettori del contagio per chi vive in struttura, sanno di lavorare in ambienti a rischio dove potrebbero contrarre l’infezione, sanno che rientrando a casa potrebbero portare il virus. Eppure da due mesi, nonostante i legittimi timori, la fatica di indossare i DPI, i turni di lavoro dilatati, continuano a dispensare sorrisi e cure, fedeli ad una scelta di vita prima ancora che professionale: prendersi cura dei più deboli.
Questa lettera aperta vuole essere un segno di rispetto e di affetto per i nostri operatori, i nostri ospiti ed i loro famigliari, con l’auspicio che altri si uniscano a questo riconoscimento, non sappiamo se la strada da percorrere salirà ancora ma di certo sarà ancora lunga e ci sarà bisogno di un grande aiuto da parte di tutti.”
Roberto Saita - Agespi Liguria 
Ezio Temporini – Anaste Liguria 
Giandario Storace - Anffas Liguria 
Andrea Bongioanni - Aris Liguria
Francesco Berti Riboli - Confindustria Genova
Valerio Balzini, Pierpaolo Rebecchi - Confcooperative Liguria
Paolo Merello - Coread Coordinamento Regionale Enti Accreditati Dipendenze 
Aldo Moretti - Corerh Coordinamento Regionale Enti Riabilitazione Handicap 
Simone Torretta - Crea Coordinamento Regionale Enti Anziani Religiosi e No Profit
Lorenzo Tassi - Fenascop Liguria Federazione Nazionale Strutture Comunitarie Psichiatriche 
Andrea Rivano - Forum Ligure Terzo Settore
Paolo Arrica, Sandro Frega - Lega Cooperative Liguria 
Giuseppe Grigoni - Uneba Liguria


domenica 19 aprile 2020

La petroliera a batteria - Francesco Mulè

La petroliera a batteria

La C’è qualcosa di paradossale nel fatto che due delle prime navi a propulsione elettrica saranno petroliere. Un consorzio di quattro grandi industrie giapponesi - Asahi Tanker, Exeno Yamamizu, Mitsui O.S.K. Lines e Mitsubishi - ha iniziato la costruzione di due “bunker tankers” gemelli che dovrebbero prendere servizio nella Baia di Tokyo tra il 2022 e il 2023. I bunker tankers (sopra) sono navi cisterne che consegnano il carburante ad altre navi più grandi. I due vascelli, ancora senza nome, saranno lunghi 62 metri, larghi 10,3 e i serbatoi di carico avranno una capienza di 1.300 metri cubi. I motori saranno alimentati dalle stesse batterie a ioni di litio usate per i telefoni cellulari - tenuto ovviamente conto delle debite differenze di scalaIl primo natante a propulsione elettrica risale a 1839, quando l’inventore tedesco Moritz von Jacobi - in una dimostrazione sul fiume Neva a San Pietroburgo davanti allo Zar Nicola I - presentò un battello capace di trasportare 14 passeggeri ad una velocità di circa cinque km/h. Tra il 1880 e il 1920, la propulsione elettrica fu largamente utilizzata come principale alternativa alla vela per le piccole imbarcazioni, per poi essere rimpiazzata dai motori a benzina.Le grandi navi da commercio invece sono passate dalla vela ai motori a vapore alimentati a carbone e poi agli enormi motori diesel. Siccome si stima che fino al 90 percento del materiale mosso dal commercio internazionale viaggi in nave, il contributo all’inquinamento è evidente. Altrettanto evidente però è che per ora le batterie, per il peso e soprattutto per il limitato raggio d’azione che permettono, non sono adatte all’utilizzo sulle lunghe distanze transoceaniche. Barche a propulsione solare hanno ormai circumnavigato il mondo, le navi a batteria finora prestano servizio in pochi casi e su percorsi limitati: è il caso del traghetto MV Ampere, che collega le due rive di un fiordo norvegese. Come per le batterie pubblicizzate alla televisione, è tutta una questione di durata…
(Francesco Mulè)



Decisione dell'Unione Europea di riprendere la sua espansione geografica con due nuovi amici: Albania e Macedonia del Nord - Francesco Mulè

Decisione dell'Unione Europea di riprendere la sua espansione geografica con due nuovi amici: Albania e Macedonia del Nord 

Due nuovi amici per l'Unione Europea. Con la soluzione dei problemi più urgenti, l’Unione Europea ha deciso in questi giorni di riprendere la sua espansione geografica, confermando la prossima apertura di negoziati con l’Albania e la Macedonia del Nord finalizzati al loro accesso all’Ue. Secondo la Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, il passo “segna l’inizio del viaggio verso una Unione più grande e più forte”. Olivér Várhelyi, il Commissario europeo per l'allargamento e la politica di vicinato, ha aggiunto con un tweet: “Manda un chiaro messaggio anche agli altri paesi dei Balcani occidentali: il vostro futuro è nella Ue!” Várhelyi si riferisce alla Serbia e al Montenegro, anche loro candidati per l’accessione all’Unione. Oltre all’apertura dei negoziati, l’Albania e la Macedonia del Nord riceveranno rispettivamente 50 e 70 milioni di euro in aiuti Ue per combattere la crisi coronavirus. Altri 90 milioni alla Serbia sono stati ricevuti con malagrazia dal Presidente di quel paese, Aleksandar Vučić, che ha criticato l’obolo come insufficiente, dichiarando che “la solidarietà europea non esiste” e facendosi fotografare mentre baciava la bandiera cinese in segno di gratitudine per un’offerta migliore... Il caso serbo svela una parte della motivazione Ue nel riprendere in mano un discorso né popolare né particolarmente urgente in un momento in cui il Continente è alle prese con una grave epidemia e con i suoi riflessi economici. Bruxelles sente come pressante la necessità di contrastare l’influenza di altri—Cina, Russia e Turchia—in una zona che considera “l’uscio di casa”. Michael Roth, il Segretario di Stato tedesco per gli affari europei, ha spiegato: “Se lasciamo un vuoto politico nei Balcani occidentali, allora altri che non condividono i nostri valori tenteranno di riempirlo”. L’espansione balcanica tende inoltre ad offuscare la non brillante conclusione per la Ue dell’affare Brexit, dimostrando che pure senza il Regno Unito l’Unione è ancora in grado di crescere e di agire. La motivazione non è secondaria in quella parte dell’apparato comunitario che si riconosce nell’ambizione espressa da Sandro Gozi—responsabile per i rapporti con l'Ue dei governi Renzi e Gentiloni, poi passato al servizio della Francia—quando, nel 2014, ha descritto l’Unione come: “...una democrazia da estendere prima a livello europeo e poi globale”… Nei fatti, la decisione di procedere con l’accessione dei due stati balcanici all’Ue era già stata promessa per l’anno scorso. Sembrava ormai tutto pronto nell’ottobre del 2019 quando Emanuel Macron ha deciso all’ultimo istante che non s’aveva da fare, ponendo il veto francese all’ingresso nell’Unione della Macedonia del Nord. Il paese, ufficialmente denominato fino a poco prima con l’imbarazzante acronimo di “FYROM”—per “Former Yugoslav Republic of Macedonia”—aveva pure cambiato nome per superare il veto greco alla sua entrata nell’Unione, essendo i greci (appoggiati dai francesi) convinti che la “vera” Macedonia potesse essere solo greca. All’epoca, l’inaspettata alzata di cresta di Macron ha causato grande imbarazzo. L’allora Presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, l’ha descritta come un “errore storico” e il Presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk, ha detto di esserne “profondamente imbarazzato”. Forse andrà meglio questa volta. 


sabato 11 aprile 2020

Corsa all'acquisto della carta igienica - Francesco Mulè

Corsa all'acquisto della carta igienica


Carta igienica — La corsa all’acquisto della carta igienica che si è scatenata in molti paesi del mondo con l’arrivo del coronavirus è stata bollata come una forma di isterismo collettivo da giornalisti ed esperti sanitari. Fanno presente che il nuovo male non è la dissenteria, non fa andare più spesso in bagno. Ne deducono che si tratti di panico irrazionale, di stupidità di massa. È chiaro che “panic buying” e accaparramento sono fattori, specialmente quando i media abbondano con immagini di scaffali vuoti negli ipermercati. Già a febbraio degli uomini armati hanno fatto irruzione in un negozio di Hong Kong portando via 600 rotoli per un valore di circa €120.                                                      A marzo un quotidiano australiano ha fatto uscire un numero con otto pagine bianche per “sopperire alle necessità igieniche”. Tuttavia, gli esperti del settore cartario—specialmente davanti al perdurare del fenomeno nei grandi centri urbani, dove tende a concentrarsi—esprimono forti dubbi sull’irrazionalità di massa come motivazione della corsa alla carta. Esiste infatti una spiegazione semplice e perfettamente razionale: l’auto-isolamento in casa che ormai riguarda un terzo della popolazione del globo ha cambiato radicalmente il posto in cui si va al bagno. Le persone che in tempi normali passano molte ore del giorno al lavoro, in ufficio o a scuola, o magari al ristorante o a fare shopping, sono ora confinate in casa, lontane dai consueti gabinetti dei giorni feriali.                                                                 La Georgia-Pacific, tra i principali produttori di carta igienica negli Stati Uniti, calcola che restare in casa 24 ore su 24 aumenta il consumo “residenziale” del 40%. Secondo l’azienda, ciò significa che in condizioni di “lockdown” il consumo di una famiglia media americana di quattro persone ammonterebbe a 17 rotoloni doppi di carta igienica ogni due settimane. È perfettamente vero che in queste circostanze il consumo di carta igienica nei posti di lavoro, nelle scuole e nelle altre “normali” destinazioni fuori casa praticamente s’azzera, ma la carta fornita agli uffici e alle istituzioni segue percorsi logistici completamente separati rispetto a quella usata in casa.                                                               La qualità è diversa, come lo è anche il confezionamento e, molto spesso, le dimensioni dei rotoli. Per complicare ulteriormente le cose, pure la distribuzione è marcatamente diversa. Molti produttori si concentrano su una sola delle produzioni tra il consumo domestico e quello fuori casa. “Charmin”, il marchio leader nel mercato domestico americano, è prodotto dalla Proctor & Gamble, che non è affatto presente nel mercato professionale. I produttori per gli uffici e le istituzioni invece, tipicamente non hanno rapporti commerciali con la Grande Distribuzione Organizzata—focalizzata sul consumo di massa —né, tantomeno, trattano il tipo di prodotto richiesto dalla GDO. La situazione negli Usa si riproduce anche in Europa.                                                                                               La carta c’è, ma non dove servirebbe perché la logistica, una macchina molto—forse troppo—raffinata, non riesce a farla arrivare senza stravolgere un intero settore industriale. La scarsità non dipende dalla massa incolta che non sta a sentire i saccenti mentre spiegano che il problema non esiste. Esiste, anche a cause dell’isolamento in casa. Comprare troppa carta igienica può non essere utile, ma non è irrazionale.


giovedì 9 aprile 2020

Bigiotteria per confondere - Francesco Mulè


Bigiotteria per confondere


Quando il coronavirus è apparso in Cina, imponendo l’obbligo della mascherina, c’è stata una certa curiosità in Occidente - non capivamo ancora che sarebbe presto toccato anche a noi - riguardo all’effetto sui sistemi di identificazione facciale molto usati nel Paese per la sorveglianza della popolazione. Avrebbero funzionato lo stesso, malgrado la maschera? La risposta, arrivata quando ormai avevamo anche noi altro a cui pensare, è stata: “Sì, non c’è problema”…
Simili tecnologie sono nei fatti comunemente usate anche da noi. L’esempio più familiare è l’algoritmo Deep Face sperimentato da Facebook per riconoscere automaticamente le foto degli amici man mano che vengono “postate”. Secondo l’azienda, funziona con un livello di precisione del 97,47%. Sistemi analoghi utilizzati dalle polizie di vari paesi occidentali per riconoscere i passanti per strada non arrivano a tanto - e molto probabilmente neanche quelli cinesi.
Comunque sia, non fa piacere a tutti l’idea di essere continuamente spiati, né dalla polizia, né dai social. La designer polacca Ewa Nowak ha pensato di provare a confondere gli algoritmi d’identificazione inventando ciò che lei chiama “face jewelry”, bigiotteria facciale. Ha provato vari modelli, ma quello di maggiore efficacia – battezzato “Incognito” - consiste in due cerchi di ottone che mascherano la linea degli zigomi insieme con un’altra striscia del metallo che arriva sulla fronte. Il tutto indossato come un paio d’occhiali.
La risposta della Nowak al problema di come riprendersi un po’ di privacy è stata premiata ad una recente edizione del Łódź Design Festival in Polonia. Però, quando la designer ha proposto di presentare diversi suoi progetti ad un’esibizione al Museo Nazionale cinese, i primi, degli innocui giochi ottici, sono stati accettati; Incognito invece è stato “fermamente” respinto.
(Francesco Mulè)

sabato 4 aprile 2020

Boom delle nascite in Nordamerica e in Europa - Francesco Mulè

Boom delle nascite in Nordamerica e in Europa



Baby Boom — Il momento attuale offre pochissime certezze, specialmente perché c’è da dubitare che le informazioni che riceviamo siano pienamente veritiere. Però, esiste una notizia buona, innegabile e assolutamente certa: prima o poi finirà… Per quanto riguarda il “dopo”, ogni ipotesi è ammessa. Una è che, a nove mesi dall’inizio dell’isolamento in casa, partirà un boom delle nascite. La logica è ineccepibile: dopo aver esaurito le possibilità di Netflix e finito di lavoricchiare in smart working, che altro c’è per far passare la serata oltre a un po’ di onesto sesso? Non mancano precedenti storici, come i picchi delle nascite a seguito di due massicci blackout elettrici a New York nel 1965 e nel 1977. Durarono però poco e i dati sono controversi. Più calzante il caso inglese provocato dalla coincidenza di un lungo sciopero dei minatori del carbone e un embargo petrolifero che—dal primo gennaio al 7 marzo del 1974—obbligarono il Governo britannico a limitare la settimana lavorativa a soli tre giorni per l’impossibilità di alimentare le centrali elettriche. Anche lì si verificò un boom delle nascite. Più recenti sono i casi della Colombia—dove il collasso della rete elettrica nel 1992 provocò un aumento delle nascite del 4% (altri 27mila bambini)—e specialmente di Zanzibar, dove per quattro settimane nel 2008 una larga fetta dell’isola rimase senza elettricità. Siccome una parte del territorio continuò invece ad averla, è stato possibile paragonare i relativi tassi di natalità. Dove la luce era mancata a lungo le nascite furono più alte del 17%. L’espressione inglese “baby boom” proviene dall’incredibile impennata delle nascite—specialmente negli Stati Uniti, ma anche in Europa—a seguito della fine della Seconda Guerra Mondiale. Nel decennio tra il 1946 e il 1955 nacquero oltre 38 milioni di nuovi americani. Sono due le spiegazioni comunemente proposte: i “romantici” sono più inclini alla versione “riaffermazione della vita” dopo i sacrifici che segnarono il conflitto. Altri attribuiscono il fenomeno al rientro nelle rispettive patrie—dopo una lunga guerra—di milioni di giovani ex combattenti in età riproduttiva. Il baby boom americano fu certamente favorito anche dalla spettacolare prosperità del Paese nel primo dopoguerra e dall’aria di ottimismo che la pace portò con sé. La crisi coronavirus invece non si fermerà in un istante con la firma di un armistizio, scatenando balli nelle strade... I governi occidentali—avendo sospeso molte garanzie democratiche—tendono a sottolineare i rischi sanitari ed economici che la “non-obbedienza” potrebbe provocare, ciò per giustificare certi eccessi e anche per preparare il terreno per un “post-crisi” organizzato in termini più graditi alle burocrazie e alle ideologie “centralizzanti” fino a poco fa minacciate da rivolte elettorali di stampo populista. Le ipotesi che prospettano un prossimo futuro di miseria non incoraggeranno a mettere al mondo nuovi figli. È anche vero però che il momento induce un sano scetticismo nelle popolazioni, capaci di abbandonare le leadership politiche che non si saranno dimostrate all’altezza. Calcolando dalla data d’inizio dell’auto-isolamento, la prossima stagione natalizia potrebbe portare un magnifico regalo: una nuova e 

giovedì 2 aprile 2020

Il caffè come benzina degli uffici - Francesco Mulè

Il caffè come benzina degli uffici

L Il caffè - a volte descritto come “la droga psico-attiva più utilizzata al mondo” - è la benzina degli uffici: sveglia e risveglia, energizza e migliora l’umore. Tutto ciò nonostante decenni e perfino secoli di critiche sotto il profilo della salute. Dal suo arrivo in Europa dal Medio Oriente, esiste un corrente di pensiero per cui è praticamente il beveraggio del Diavolo, la fonte di ogni male. Attorno alla metà del 17° secolo, quando il caffè raggiunse Marsiglia, uno studioso di quella città subito scrisse che “le particelle bruciacchiate che contiene esibiscono una violenta energia tale che, quando entrano nel circolo sanguigno attirano la linfa e prosciugano i reni”, con il risultato di causare “esaurimento generale, paralisi e impotenza”.                                                                                    In tempi più recenti, piuttosto che paralisi e impotenza maschile, i dubbi hanno perlopiù riguardato l’effetto della caffeina sul sistema nervoso e sul cuore. Tuttavia, nell’ultimo decennio c’è stato un ripensamento generale sulla sua utilità sanitaria. Secondo il nuovo “verbo riformista”, fa bene bere il caffè, anzi forse non se ne beve abbastanza…                                                                                                                                                                    Una ricerca tedesca condotta da due biologi dell’Università di Düsseldorf, Joachim Altschmied e Judit Haendeler, dimostrerebbe per esempio che due tazze di caffè al giorno non bastano per proteggere il cuore (sì, “proteggere”). Bisognerebbe berne quattro… Secondo gli studiosi, quello è il livello di consumo necessario ad assicurare caffeina sufficiente per favorire l’assorbimento di una proteina denominata “p27” da parte delle cellule cardiache, migliorando l’efficenza del cuore. Altschmied aggiunge che: “È stato già dimostrato che quattro o più tazze al giorno riducono i rischi d’infarto, ictus e diabete”.                                                                                                                                              Oltre a smentire i presunti pericoli cardiaci legati al caffè, altre ricerche recenti hanno associato il suo consumo alla riduzione del rischio di contrarre l’Alzheimer: altre ancora suggeriscono che la caffeina potrebbe rinforzare le difese del fegato contro la cirrosi epatica. Certo, il Kaffee tedesco o il simile beveraggio angloamericano non sono il caffè come lo si intende in Italia. Però, i progressi della scienza potrebbero forse finalmente cancellare un altro scempio italiano. Che fine farà “l’orzo in tazza grande” se non fa più male bere un caffè come si deve?
(Francesco Mulè)